venerdì 1 gennaio 2016

Di un solo colore

La guerra a volte si rende necessaria, quando libera da una dittatura, ma anche in quell'auspicabile eventualità porta con sé conseguenze i cui effetti sono oggi sotto i nostri occhi, come sulle nostre spalle. Mi ricordo bene il dopoguerra, sono nato nel 1952 e i primi otto anni li ho vissuti in un paesino fuori Milano, più campagna che paese, con le donne che facevano ricami al tombolo sulla strada sterrata che portava nei prati coltivati a mais e rape. Un po' stavo lì, e un altro poco dalla mia amata nonnina pugliese, l'unica intelligente di una famiglia di stronzi, che abitava all'interno della cerchia della periferia cittadina, poi diventata Quarto Oggiaro - Barbon City - la Scampia del nord dove, sempre in mezzo alla strada, al posto delle donne e dei tomboli ci stavano i bulli malavitosi, quelli che mostravano facile il loro ferro coi numeri di serie limati via.
Quarantacinque anni passati lì ti temprano il carattere con le risse e i pestaggi, e se non crepi presto di eroina o di coca perché sei stato accorto, e ti sei limitato all'LSD, alla psilocibina, l'hashisc e la marijuana, al peggio finisci in galera, ma per poco.
La guerra, dicevo, ha esaltato gli animi dei sopravvissuti, disponendoli al credere che le cambiali fossero il segreto della ricchezza improvvisa, quella che ti faceva fare fotografie a tutti quelli che avevano in animo di diventare famosi sedendosi sul parafango della fiat 500 verde pisello, comprata con lo sconto perché quel colore non era ritenuto essere un esempio di dignità esistenziale.
Dagli e dagli col lavoro e le cambiali il parafango sotto al culo è cambiato, ingrossandosi come la macchina fotografica e la pancia delle persone, e dalla 500 ci si è seduti sulla 600, poi sulla Renault Dauphine e i più fortunati su quello della Giulia 1300, tenuta sempre lucida per far morire di rabbia quelli che si erano fermati alla Simca 1000 arancione che scoloriva in fretta.
Intanto i nostri vecchi lavoravano da far impallidire di vergogna le formiche, e pure noi hippie, poi diventati freak, ci sbracciavamo a passare frontiere con imboschi creativi quanto pericolosi, perché il lavoro in catena nelle fabbriche lo vedevamo come l'anticamera dell'inferno.
Nel frattempo lo Stato, democratico e cristiano come un mastino che ha in mente di farsi una barboncina, imperversava diffondendo dalla sua TV moralità a piene mani, distribuita dai telegiornali, dai giochi a quiz per dementi, dai preti e dalla mafia politica che si avvaleva della mafia assassina, dei servizi segreti e dei fascisti stragisti.
In fondo, dopo i milioni di morti lasciati a terra o nei forni crematori dall'ultima guerra, questi delitti sembravano essere solo dei danni collaterali al successo sociale che, anche se non era garantito, era comunque considerato alla portata di chiunque fosse disonesto la metà di come lo furono fascisti e nazisti.
Oggi quei tempi appaiono essere lontani; nascono movimenti nuovi che si dichiarano alternativi e giustizieri nella loro volontà di marciare di nuovo su Roma.
Si fanno chiamare "Forconi", "M5S", ma sono gli stessi fascisti travestiti che inscenano la stessa farsa, parodia di un passato colonialista dove si diceva di andare in Africa a civilizzare i selvaggi sterminandoli col gas Iprite, ma che assicurano non essere più significativa la discriminazione destra—sinistra, perché oggi siamo tutti abbracciati sotto l'unico colore di cui si veste la Giustizia: il nero.

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