mercoledì 29 giugno 2016

Istanbul 1978

Istanbul è città che si allarga per una settantina di chilometri di follia, irraggiata in tutte le direzioni, forse anche verso l'alto e il sottosuolo. Lì si possono incontrare vecchie auto americane, come si trovano solo a Hollywood e a Cuba, ma con montati sotto al cofano fragorosi e fumosi motori di Pulmann. Spesso queste auto non hanno nemmeno la targa. Per le strade tutti suonano senza interruzione i clacson, più facilmente le trombe, dei mezzi che guidano in uno sbuffare ansioso che pare di animali meccanici, coscienti in misura maggiore dei fanciulli che li stanno guidando, riverenti soltanto a tutto ciò che mortifica, senza freni inibitori, l'intenzione di dare importanza alla vita del prossimo. 
L'incastonarsi, in tutta questa selvaggia baraonda, dell'anelito innalzato in preghiera del Muézzim, pare un atto di salvataggio estremo verso una città deforme che nel suo intimo vorrebbe morire di gioia estrema. Camminando insieme alla selva di gambe che pare non avere una sua destinazione, incrocio un gatto verdastro che pare intuire il mio stupore e mi fissa incredulo, non condividendo la mia inadeguatezza. 
Sul canale del Bosforo una spiaggina inizia dal niente, addossata a un muro di grosse pietre che la osserva allargarsi nel suo proseguire che, deviando verso la profondità dei flutti, si mastica un mare sporco e pericoloso, oltraggiato da enormi navi. Delimitazioni di pali e reti, indebolite e strappate dalla ruggine, dividono la lingua di terra in spicchi che s'ingrandiscono, in modo direttamente proporzionale tra loro, e che si allungano con l'allargarsi in fuori, cambiando l'aspetto di quelle aspirazioni che vorrebbero essere spiagge che si appropriano di terra con il loro allontanarsi dalla povertà iniziale di quel primo lembo nudo il quale, nel suo arrancare, si è presto ritrovato l'ostacolo di una sedia scassata di legno, oltre la cinta di rete con la quale confina, e che sta osservando, delusa a sua volta, il tavolino della spiaggia più in là ancora, che si distende a partire dal suo fianco malato, per spegnersi nell'invidia di un altro tavolo ancora, che non è più suo, e che possiede due sedie di fòrmica scheggiata, simili a quelle di un ambulatorio abbandonato, avvitate su tubi di ferro che avrebbero voluto essere cromati, e che discutono tra loro di un futuro improbabile. Per questo sputano veleno, tutti coesi, sull'altro pezzo di spiaggia ancora più largo il quale, coraggioso, osa addentrarsi più in profondità nei flutti coi quali litiga senza sperare in una vittoria, combattendo solo per pavoneggiarsi nel vanto di avere uno sgabbiotto di legno marcio da difendere e un ombrellone, rivoltato da un vento che gli gioca insieme, impietoso. 
Ma nemmeno questa spiaggia è felice, perché è costretta a piegarsi all'ultimo e decoroso pezzo di terra, quasi dignitoso, il più largo e meno brutto di tutti, con addirittura due panchine impiantate davanti a una casetta miniaturizzata, in masonite marrone, fermata da cumuli protettivi di sabbia sassosa, scura e incatramata, che la incolla a pietre infernali e laviche, ed è difesa da cubi di cemento frangiflutti, irti di tondini contorti di ferro arrugginito che paiono artigli, pronti a difendere dai mostri galleggianti che urlano fumo davanti al loro coraggio. 
Ignorando questa lotta epica un uomo imponente si tuffa, insaccato in una muta composta di pezzi di camera d'aria di camion, vulcanizzati tra loro, a cacciare improbabili pesci impugnando un fucilino a elastici del color della nicotina, senza un segnale, galleggiante e sfrontato, per allertare i natanti che la preda umana da tranciare nelle loro eliche è lì, ossequiosa davanti alla volontà omicida di chi è sicuro che le speranze di sopravvivenza stiano esclusivamente nella commistione di forza bruta e crudeltà sprezzante.
Più su, in un parcheggio di camion dai colori sbiaditi dal tanto correre, un parrucchiere da strada agita le monetine contenute nella larga tasca frontale del suo verde grembiule, per richiamare l'attenzione di un mondo spettinato, e approfitta dei grossi specchi retrovisori di mastodontici mezzi addormentati, salendo veloce sulle loro predelline per specchiarsi e ammirare il pettine che si passa, con voluttà, tra i capelli intrisi di brillantina allontanando così, a ogni passata, un nugolo di mosche appollaiatosi sopra che svolazza via per ritornare, subito dopo, a incollarsi impavido sulla luccicante superficie compatta.

Sul retro di quel palcoscenico mondano un uomo mostra a un altro uomo come è facile andare in bicicletta, e per un poco pedala gagliardo facendo evoluzioni, e un mazzetto di lire turche cambia di mano contemporaneamente alla bicicletta sulla quale l'altro, l'apprendista, sbanda paurosamente, rassegnato e con un piede per terra, per tornare a riprendersi deluso i suoi soldi, riconsegnando all'altro la sua bici sulla quale il proprietario risale un'ennesima volta ancora, ricominciando a pedalare dietro a uno smagliante ed estasiato sorriso. E lo scambio prosegue più e più volte, perché è così che si impara a pedalare in Turchia, quando non si possiede una bicicletta, allo stesso modo nel quale si vive quando non si è padroni della propria vita.

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