giovedì 28 luglio 2016

Uno striminzito matrimonio quartoggiarese

Vivevano insieme da venticinque anni, non avevano nessuna necessità di sposarsi, ma c'era da sistemare il piano terra della stalla che Rosanna aveva deciso di trasformare in una abitazione.
A Massimo l'idea ricordava l'attraversamento del mare Rosso sangue aperto in due da Mosè, e lui si sentiva nella stessa situazione dell'esercito egiziano inoltratosi tra i flutti che lo annegarono.
— Mi danno quindici giorni di ferie pagate se ci sposiamo— gli disse lei, con l'aria candida di chi sa che fare il muratore è lavoro da uomini
— Okkey— rispose lui, sperando di ammalarsi nel frattempo.
Intanto il destino che aleggiava disegnando cerchi concentrici sempre più stretti sopra le loro teste stringeva le sue volute evitando di provare pietà.
Decisero di non invitare nessuno tranne i testimoni: la mamma di Rosanna e i genitori di Massimo.
Lo zio di Massimo, un operaio comunista, decise di presentarsi anche se non invitato per accertarsi che i due sposi non fossero uniti in nozze dal sindaco fascista Decorato - si chiamava in quel modo per mostrare che la vita sa essere anche sarcastica.
Il mattino dell'evento nessuno era agitato: nessun rinfresco niente invitati e zero regali si erano accordati per far trascorrere a tutti una giornata quasi uguale alle altre.
Arrivati al Comune di Milano in metrò si diressero verso un cancello che proteggeva un portone in legno scuro, quando un guardiano tenendo la mano alzata avvisò che l'entrata per la richiesta di cittadinanza era dall'altro lato del palazzo. Rosanna era bionda come sua madre, ed entrambe avevano l'aria di essere rifugiate dell'Est europeo o della Madre Russia, mentre i genitori di Massimo ricordavano la dignità di chi non avrebbe voluto trovarsi lì.
La sera prima Rosanna e Massimo avevano cercato tra gli argenti acquistati in India due anelli, ma erano tutti piccoli così ne tagliarono due lasciandoli neri di ossido nella convinzione che a nessuno sarebbe passato per la mente di guardarli.
Fu il primo errore, che raggelò gli animi degli addetti alla funzione civile che la mancanza di civiltà aveva voluto sovrapporre a quella religiosa.
Una donna alta e riccia vestita come una cameriera di un ristorante di lusso fece cenno a Rosanna e Massimo di posare gli anelli sul candore bianco di un piccolo cuscino bordato di pizzo.
I due anelli anneriti e rotti furono messi lì in uno stato d'animo da esecuzione capitale, sotto gli occhi increduli della cameriera di lusso che si rifiutarono di battere le ciglia così da consentire al sangue di invadere le cornee di un rosso demoniaco.

L’assessore che li sposò era un amico dello zio comunista col quale Massimo non era mai andato d’accordo da quando aveva lavorato all’Alfa Romeo come impiegato e disegnatore, perché Massimo, nei cortei interni alla fabbrica, tendeva a spintonare malamente i crumiri, cosa che gli costò undici lettere di ammonimento con minacce di licenziamento in un anno e mezzo passato in quella ditta di stronzi, tutti amici di suo padre più stronzo di loro.
In un’atmosfera che ricordava quella dei film di serie B la cerimonia iniziò col piede sbagliato che l’assessore mosse per primo…

— Vuoi tu, qui presente, Massimo Vaj, prendere in moglie la qui presente Rosanna Fioratto?— di Massimo si poteva dire di tutto, ma non che fosse presente

Il Vaj, con l’aria di chi a un processo si sente comminare l’ergastolo, finse di non capire, ma l’assessore insistette ancora per rispetto dello zio comunista col quale aveva in mente di cambiare il mondo in peggio

— La vuoi sposare o no?— Massimo accompagnò con un sì un movimento del capo che pareva essere un no.
Non contento l’assessore affrontò Rosanna, che scalpitava dalla voglia di menare le mani…
— Vuoi tu, qui presente, Rosanna Fioratto, prendere come marito Massimo Vaj?— l’assessore tralasciò di dire “il qui presente” per non incorrere nel reato di calunnia

La Fioratto disse in fretta di sì, non tanto perché lo volesse, ma perché aveva fame e si era parlato di farci un aperitivo con un pacchetto di patatine al bar che c’era lì fuori.

Sia Massimo che Rosanna evitarono di memorizzare la pappardella dei successivi doveri post matrimoniali, perché era cosa che entrambi davano per scontata da che avevano deciso di invecchiare insieme: loro due si sarebbero sostenuti a vicenda perché erano amici prima di essere amanti.

La cameriera di lusso, allampanata e rigida forse per lo spessore esagerato del trucco, porse loro gli anelli neri e rotti allungando il candido cuscino come se sorreggesse una pozione velenosa, e i due novelli sposi dovettero stringere forte i denti dal dolore per infilarseli, sapendo che se li sarebbero tolti appena varcata la porta d’uscita che, sembrò strano a entrambi, non aveva il maniglione antipanico.

Usciti dal Comune tutti si infilarono esausti nel bar sull’altro lato della strada, e i genitori di Massimo insistettero per pagare l’aperitivo, facendolo col sorriso di chi era contento di essersi messo in pari col matrimonio lussuoso pagato alla sorella di Massimo, che era andato in pezzi poco tempo dopo, come secondo loro avrebbe dovuto accadere pure a quello di Massimo e Rosanna, per un senso della giustizia che i genitori di Massimo avevano sviluppato nello stesso modo in cui i camaleonti cambiano colore secondo le deprecabili circostanze.




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